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XXXIII GIORNATA MONDIALE DEL MALATO

11 FEBBRAIO 2025 ore: 11.00 - Auditorium IRCCS CROB Rionero

L’Ufficio Diocesano per la Pastorale della Salute, in collaborazione con l’Ufficio Diocesano per la Pastorale Sociale e l’IRCCS CROB di Rionero in Vulture,l’11 febbraio 2025, in occasione della XXXIII Giornata Mondiale del Malato, presso l’Auditorium dell’IRCCS CROB, ha organizzato il seguente programma:
– ore 11.00 Santa Messa Presieduta da S.E. REV. MONS. CIRO FANELLI;
– ore 12.00 Incontro Biblico “Io ti conoscevo per sentito dire ma ora i miei occhi ti vedono” a cura di Padre Tony Leva.

Melfi, Anno Giubilare 2025 - 9 febbraio 2025

Testimoni coraggiosi della speranza cristiana

Messaggio del Vescovo in occasione della festa di S. Alessandro martire

 

 

CIRO FANELLI

VESCOVO DI MELFI–RAPOLLA-VENOSA

Testimoni coraggiosi della speranza cristiana

Messaggio del Vescovo
in occasione della festa di S. Alessandro martire
Melfi, Anno Giubilare 2025 – 9 febbraio 2025

 

Fratelli e sorelle nel Signore

1. la ricorrenza annuale della solennità di Sant’Alessandro, patrono della nostra Diocesi e della città di Melfi, è sempre un’occasione propizia che può aiutarci a riscoprire le nostre radici cristiane e a riflettere sulle modalità concrete con le quali oggi nella nostra terra siamo chiamati a testimoniare la fedeltà al Signore Gesù e al Vangelo. Quest’anno celebriamo la festa di S. Alessandro nel contesto del Giubileo ordinario “Pellegrini di Speranza”, indetto da Papa Francesco.
Il Giubileo è sempre un tempo di grazia in quanto esso è proteso a raggiungere tutti con l’annuncio della perenne novità del “Vangelo della misericordia”, il solo che può spingerci ad agire da
discepoli del Risorto per ridare speranza a quanti nelle nostre comunità si trovano vivere situazioni difficili, dolorose e di degrado sociale ed umano.

2. Tutti siamo consapevoli che il momento storico, nel quale ci troviamo a vivere, purtroppo, è segnato da notevoli criticità e da strane compromissioni; è un tempo complesso e drammatico:
pensiamo alla precarietà del lavoro, alla crisi finanziaria, alle guerre, al disinteresse per il bene comune, ai migranti, ecc. Ma, proprio in quest’ora, così problematica, in quanto cristiani siamo
chiamati ad affrontare l’esistenza con “il coraggio della speranza” e a testimoniare il Vangelo nella sua interezza, direbbe san Francesco, “sine glossa”. Il nostro Patrono, il martire S. Alessandro,
animato da questa intensa fedeltà a Cristo e alle esigenze del Vangelo, come i martiri di ogni tempo, è riuscito ad affrontare le atrocità del martirio lasciandoci un esempio indelebile che ha attraversato i secoli: in questo egli è stato un autentico “pellegrino di speranza”.

3. Papa Francesco, con l’ Anno Santo ordinario, ci sta chiedendo con forza di assumere una postura da pellegrini di speranza, cioè di essere uomini e donne, che non si piegano, che camminano con la testa alta, che non accettano compromessi e che sanno di poter contare in ogni circostanza sull’assoluta fedeltà di Dio e sulla sua infinita misericordia. Accogliendo l’invito del Papa dobbiamo essere pronti come singoli battezzati e comunità cristiana a stare accanto a quanti vivono in situazioni di marginalità sociale e spirituale, senza farci ricattare da nulla e da nessuno, per aiutarli con la forza del Vangelo, a non arrendersi a nessun sopruso e a nessuna tragedia esistenziale e sociale, ma rafforzando in essi la certezza che con la grazia di Cristo è sempre possibile cambiare e ricominciare.

4. Per la nostra comunità diocesana, nelle attuali circostanze locali e mondiali, guardare a S. Alessandro diventa uno sprone per essere persone che si lasciano guidare dalla virtù della Speranza così da essere instancabili tessitori di fraternità e operatori efficaci di solidarietà. Con questo messaggio desidero evidenziare alcuni tratti essenziali della figura del S. Alessandro, che attraverso il martirio ha mostrato l’autenticità della sua sequela di Cristo. I tratti evidenziati della personalità di S. Alessandro sono atteggiamenti che possono aiutarci a vivere con maggior coerenza la nostra fedeltà a Cristo e all’uomo. Sottolineo sinteticamente tre atteggiamenti, che riassumo in tre parole: a) creatività, b) fraternità, c) lungimiranza.

a) Creatività. S. Alessandro, secondo l’espressione di Tertulliano, è tra quella moltitudine di donne e di uomini, il cui sangue versato per la fede è stato “seme” di nuovi cristiani. Oggi il cristiano deve credere che non c’è situazione che egli con la forza derivante dal Vangelo vissuto non possa cambiare e che nella misericordia di Dio è sempre possibile ri-cominciare.
La fede, infatti, è sempre generativa: dal Vangelo nascono uomini nuovi: il servizio alla verità e la partica del “difficile amore”, vissuto con umiltà e fiducia, genera sempre vera coesione sociale, autentica alleanza generazionale e concreta solidarietà. Questo è il modo per essere e vivere da “pellegrini di speranza”! Il cristiano, che guarda l’esistenza nella luce della Speranza derivante dalla fede, mentre afferma le implicanze sociali del Vangelo, ribadisce anche il valore del dialogo aperto e leale con tutti e promuove la corresponsabilità.
La creatività evangelica è a servizio di un mondo autenticamente umano, che non si piega ai ricatti, alle menzogne e alle umiliazioni dei più deboli; essa, inoltre, proprio perché intrisa
di Vangelo, auspica sempre la collaborazione di tutti in vista della realizzazione del bene comune.

b) Fraternità. S. Alessandro, in quanto soldato, comprendeva bene l’importanza strategica di agire in unità di intenti. Ma, grazie alla fede cristiana, ha anche capito nella sua carne che l’altro uomo, finanche il nemico, è fratello, sempre da amare.  Oggi, in un tempo di forte crisi dell’impegno comunitario, la via dell’amicizia sociale, ci insegna papa Francesco è l’unica strada da percorrere con determinazione se vogliamo realmente uscire dal labirinto delle conflittualità e della cultura dello scarto. Per percorrere questa strada è necessario coltivare il coraggio della speranza. Senza questo coraggio non si potrà mai intessere un vero dialogo e non ci si incamminerà  mai  con fiducia verso nessun futuro degno dell’uomo. E’ necessario abbattere i muri dell’indifferenza e della diffidenza, del ricatto e della corruzione, dell’odio e del disprezzo sociale. Con la forza del Vangelo, vi dico che è urgente da parte di tutti l’impegno per diradare “le ombre di un mondo chiuso” (Cfr. Fratelli Tutti, 9) e mostrare la possibilità di costruire “un mondo senza frontiere” per restituire alla comunità cristiana la scioltezza di  mostrare il suo vero volto, quello di una fraternità nata dalla fede in Cristo Risorto che sa accogliere tutti, che sa chinarsi sulle ferite dell’umanità, che restituisce dignità a tutti gli emarginati della storia. Il messaggio evangelico, infatti, ci ricorda che “con l’incarnazione “il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo” (Gaudium et spes 22). La fraternità che nasce dal Vangelo-vissuto, sa farsi senza paura “debole con i deboli […] tutta per tutti” (1Cor 9,22). In questo modo le  nostre comunità continueranno ad annunciare in modo credibile  che “chiunque segue Cristo, l’uomo perfetto, si fa lui pure più uomo” (Gaudium et Spes, 41)

c) Lungimiranza. Il martire cristiano è l’uomo che sa sognare un mondo nuovo anche di fronte alle atrocità e alle meschinità dei potenti di turno. Egli non si lascia fermare né dalle minacce né dalle lusinghe. Negli occhi del martire brillano due luci: una che contempla i cieli nuovi e la terra nuova e l’altra che sa vedere i germogli di una nuova umanità, già qui su questa terra. Il martire è sempre animato dalla certezza che egli, grazie alla Risurrezione di Cristo, mentre entra nella gloria della Gerusalemme celeste, sa che il suo sacrificio non è mai vano, ma contribuisce  fattivamente ad allargare i confini del Regno di Dio in mezzo a noi. Un Regno che si incarna nella verità e nell’amore, nella libertà, nella giustizia e nella pace. Essere lungimiranti oggi significa credere, come afferma in uno dei suoi romanzi uno scrittore giapponese, H. Murakami, che “quando la tempesta sarà finita, non saprai neanche tu come hai fatto ad attraversarla e a uscirne vivo. Non sarai neanche sicuro se sia finita per davvero. Ma su un punto non c’è dubbio. Ed è che tu, uscito da quel vento, non sarai lo stesso che vi è entrato”. Il mondo attende donne ed uomini, soprattutto cristiani, lungimiranti, con visioni di un futuro degno dell’uomo e che sanno indicare sentieri concreti per raggiungerlo.

5. S. Alessandro ci esorta a non fermarci nell’attraversare la tempesta del momento presente e tutte le altre che troveremo durante il cammino. Forse non saremo neanche sicuri se la tempesta è finita o meno. Ma, avendo il nostro Maestro Gesù accanto a noi, usciti dal vento tempestoso, potremo diventare luce, sale, città sul monte o lucerna, pronti ad accettare le gioie e le sfide della vita, sapendo che davanti a Dio tutto ha senso, tutto è rilevante, tutto è importante. Il nostro Patrono, martire per Cristo, ci invita a rileggere, in questa prospettiva, il brano di Matteo 5, 13-16: “Voi siete il sale della terra; ma se il sale perdesse il sapore, con che cosa lo si potrà render salato? A null’altro serve che ad essere gettato via e calpestato dagli uomini. Voi siete la luce del mondo; non può restare nascosta una città collocata sopra un monte, né si accende una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il lucerniere perché faccia luce a tutti quelli che sono nella casa. Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli”.

6. Quel “voi” è potentissimo, perché Gesù si rivolge direttamente a coloro che hanno ascoltato le beatitudini, cioè a coloro che si riconoscono poveri, miti, misericordiosi, operatori di pace,
perseguitati, affamati di giustizia. Quel voi, a pensarci bene, riguarda tutti, ma prevalentemente i giovani e le giovani che sono pronti ad attraversare il passaggio decisivo della vita, quello verso
l’età adulta, avendo a cuore il bene maggiore. A tal proposito, l’essere pellegrini di speranza ci obbliga anche a denunciare quando la politica smarrisce il senso della giustizia sociale, intergenerazionale e ambientale. Questa è, forse, la prima forma per essere costruttori di speranza. È necessario un risveglio da un grave torpore antropologico, culturale, sociale ed etico.

7. Dire che qualcosa non funziona non è mai sufficiente. Invece, capire le ragioni di quel cattivo funzionamento, proporre alternative, impegnarsi in prima persona è il minimo che si possa
fare. Cioè, richiamando il pensiero della filosofa H. Arendt, noi tutti spesso ci troviamo, nei contesti in cui operiamo, davanti ad almeno tre gruppi di persone: i “nichilisti”, i quali, credendo non vi siano valori assoluti, si collocano nelle sfere del potere; i “dogmatici”, che si aggrappano a una posizione predeterminata; il “gruppo maggioritario” che assume in maniera acritica le abitudini
della società. Arendt ha sostenuto che il nazismo si è alimentato ed è stato incoraggiato da questi tre gruppi, anzi quei tre gruppi hanno creato le condizioni per ciò che la filosofa definì “la banalità del male”, intesa come complicità. L’antidoto alla “banalità del male” è la piena partecipazione di tutti ai processi democratici di trasformazione delle nostre realtà.
Partecipazione significa impegno personale e collettivo. Dobbiamo insieme a tutti coloro che abbiano intenzione di impegnarsi per il bene maggiore dell’umanità, trovare i modi per facilitare la
piena partecipazione di tutti ai processi democratici di trasformazione che siamo chiamati a mettere in atto. Non arrendiamoci, restiamo uniti, guardiamo avanti con fiducia!

Il Signore, attraverso l’intercessione di S. Alessandro, ci renda testimoni coraggiosi della speranza cristiana per far rinascere la nostra terra e le nostre comunità. Vi benedico tutti con affetto
ecclesiale.

Melfi, 8 febbraio 2025 – Giubileo ordinario.

+ Ciro Fanelli
Vescovo

 

MESSAGGIO S. ALESSANDRO 2025


Giubileo diocesano dei Fidanzati

2 febbraio 2025 ore 16.00 - Chiesa di San Rocco Venosa

Carissimi,
il nostro Vescovo Mons. Ciro Fanelli desidera vivere l’Anno Giubilare anche con i fidanzati che si preparano al sacramento del matrimonio. Come Ufficio Diocesano per la Pastorale familiare vi invitiamo a farvi promotori del Giubileo dei Fidanzati che si terrà domenica 2 febbraio a Venosa a partire dalle ore 16.00 con raduno presso la Chiesa di San Rocco. I nubendi avranno la possibilità di attraversare la Porta Santa del Santuario Giubilare della SS. Trinità e, successivamente, di dialogare con il nostro Vescovo.
Vi chiediamo, come già anticipatovi nel nostro messaggio dello scorso novembre, di comunicare questo particolare appuntamento alle coppie di nubendi dei percorsi prematrimoniali che si svolgono in parrocchia e di incoraggiare la loro partecipazione accompagnandole anche come sacerdoti e coppie guida. Vi aspettiamo, sperando in una nutrita partecipazione vista l’importanza che il Vescovo dà a questo incontro.
Saluti
Matilde Calandrelli e Raffaele Tummolo
Direttori Ufficio Famiglia Diocesano

Giubileo diocesano della vita consacrata

Sabato 01 febbraio 2025 - Venosa

In quest’ora della Chiesa c’è l’urgenza di affinare lo sguardo per contemplare la realtà e di tendere l’orecchio per ascoltare lo Spirito che non cessa di gemere nelle grida e nelle complessità della storia, nei volti e nelle ferite dei più poveri. Un’urgenza di uscire, di scomodarsi, di abbandonare la confort zone e di paralisi in cui si sono trincerati tanti credenti. Proprio ora, in questo momento cruciale per la Chiesa, in questo cambio d’epoca, in cui la Chiesa vede in gioco il suo futuro, deve aprirsi a «un nuovo capitolo della sua biografia, deve aprire il dinamismo conciliare, il metodo sinodale».[1] La necessaria conversione a cui la Chiesa è chiamata, presuppone di dare allo Spirito il ruolo di protagonista, di vivere a partire dalla centralità di Gesù e in un ascolto attento della realtà. È urgente una conversione pastorale. Sarà necessario: «ripensare e progettare una pastorale in chiave missionaria in una Chiesa che sta passando dal paradigma della cura dell’anima a quello dell’evangelizzazione e della missione; è il passaggio da una Chiesa di servizi a una Chiesa al servizio del mondo e dei bisogni concreti di ogni uomo e donna».[2]

Il cammino sinodale presuppone la conversione, spetta alla Chiesa essere quella narrazione credibile di ciò che la società si aspetta di leggere in lei. E questo implica generare la necessaria dinamica di relazione, di incontro nella complementarietà e nella reciprocità. Si tratta di rendere possibile il noi ecclesiale, di trascendere le singolarità, per vivere nel dono della pluralità, che è il luogo in cui si realizza il senso della Chiesa, il sensus Ecclesiae. E questa conversione, che richiede il superamento degli individualismi, deve essere assunta da tutti, perché tutte le vocazioni possono cadere nella tentazione dell’autosufficienza che limita l’uscita da se stessi e la disponibilità di discepoli a incontrare.

La Vita Consacrata, convinta della necessità di una riforma, si inserisce in questo pellegrinaggio sinodale, abitata dalla convinzione di essere Chiesa e in virtù del Battesimo, mistica, missionaria e profetica. Il suo impegno oggi è quello di riscrivere queste tre narrazioni essenziali della sua identità e missione. Mettersi in cammino con gli altri in questo oggi della Chiesa porterà a costruire insieme vivendo un’autentica spiritualità e nella consapevolezza dell’identità dei soggetti ecclesiali e che, attraverso il battesimo e il sacerdozio comune, tutti hanno la stessa dignità, e sono chiamati a contribuire alla configurazione di una Chiesa più sinodale, nella quale sarà particolarmente necessaria e significativa la presenza e la missione delle donne, dei laici, dei poveri e di tutti i soggetti emergenti storicamente esclusi.

Si tratta di entrare in una dinamica di conversione, un processo di ascolto, riflessione e discernimento che mira a: «rendere la Chiesa sempre più fedele, disponibile, agile e trasparente per annunciare la gioia del Vangelo. Le sfide sono lì per essere superate. Dobbiamo essere realistici, ma senza perdere la nostra gioia, l’audacia e la dedizione fiduciosa. Non lasciamoci rubare la speranza missionaria».[3] La Chiesa, consapevole della sua identità di discepola missionaria, è invitata a vivere una mistica feconda che la conduca a un incessante pellegrinaggio interiore ed esteriore senza scuse. Che la mobiliti, la lanci, la metta in cammino.

[1] Bueno y Calvo, Una Iglesia Sinodal, 44.

[2] Leal, O Caminho Sinodal com o Papa Francisco, 87.

[3] Raúl Berzosa Martínez, Inteligencia Pastoral en clave de Sinodalidad, Barcelona: CPL, 2020, 46

(Fonte: Dicastero della vita consacrata – Cfr. Gloria Liliana Franco Echeverri, ODN, Presidente della CLAR)

Azione cattolica: Preghiera diffusa per la pace

Nei giorni tra il 27 e il 31 gennaio nelle parrocchie di Azione Cattolica

Il mese di Gennaio è per l’Azione Cattolica il Mese della pace, in cui riflettere sul come ognuno, singolarmente o come comunità, può essere operatore di pace, cercando di favorirne sempre più lo sviluppo.

L’Azione Cattolica della nostra Diocesi propone momenti di preghiera per il dono della pace, i quali si terranno nei giorni tra il 27 e il 31 gennaio nelle parrocchie in cui l’associazione è presente, e in particolare:
– il 28 gennaio alle ore 17.30, presso la Chiesa Sant’Elia di Maschito;
– il 28 gennaio alle ore 18.30, presso la parrocchia Sant’Antonio di Lavello;
– il 29 gennaio alle ore 18.30, presso la Chiesa di San Nicola e Maria SS. di Forenza;
– il 30 gennaio alle ore 19.00, presso la Chiesa Madre di Barile;
– il 31 gennaio alle ore 18.45 presso la Chiesa di San Gerardo di Rionero in Vulture (parrocchie SS. Sacramento e San Marco Evangelista)
– il 31 gennaio alle ore 19.15, presso la Basilica Cattedrale di Melfi (parrocchie Santa Maria Assunta e Santa Gianna Beretta Molla).

L’invito è ad unirsi per chiedere a Dio il dono della misericordia e della pace, con la speranza che anche dalle ferite ecclesiali e sociali possa rinascere una nuova umanità.

Domenica della Parola di Dio

Spero nella tua parola - 26 gennaio 2025

Quest’anno la domenica che la Chiesa dedica alla Parola di Dio, il 26 gennaio, ci introduce nel Giubileo che Papa Francesco ha indetto per il 2025. Il centro della preghiera di tutta la Chiesa sarà il dono della “speranza”, che chiediamo con tutte le forze al Signore Gesù. La Parola di Dio ci aiuta a trovare le ragioni della nostra speranza e a rianimarla, particolarmente in questa nostra terra e in questo tempo di buio e di sofferenza che l’umanità è costretta a vivere a motivo delle guerre e delle ingiustizie che gettano nel cuore timori, sconforto, dubbi. Per questo, vi propongo la lettura della Prima Lettera di San Pietro Apostolo. È una lettera breve (soltanto cinque capitoli), ma trabocca della grazia dello Spirito Santo, che sola può animare la nostra vita cristiana nella fede, nella speranza e nella carità. È lo Spirito Santo che ci dà forza e irradia nei credenti la luce della Speranza. È Lui che tiene accesa nel nostro cuore una fiaccola che mai si spegne. È Lui che dà sostegno e vigore alla nostra vita anche nelle situazioni più difficili. La speranza cristiana non illude. Anzi ci dà la capacità di vedere la realtà così come è. La speranza cristiana non delude. Anzi è un dono di Dio che ci dà gioia e crea un vincolo di comunione tra tutti gli uomini e le donne che cercano la pace. La speranza cristiana è fondata sulla certezza che niente e nessuno potrà mai separarci dall’amore di Cristo, nostra pace. Dice il testo della lettera di Pietro che la parola del Vangelo, seme incorruttibile, ci ha rigenerati per una speranza viva, anche se ora siamo afflitti da prove più grandi di noi e che sembrano non avere fine. (cfr. 1 Pt 1,23) Ripeto: la lettera è breve, ma molto bella e piena di forza. Vi esorto dunque a leggerla e a rileggerla, insieme o personalmente, e a pregare con le parole che essa mette sulle nostre labbra. Suggerisco di sottolineare nella lettura quelle parole che più ci colpiscono e che ci potranno accompagnare per tutto l’anno giubilare. Se tutti insieme faremo questo, con fede e con fiducia, troveremo per le nostre coscienze nuova gioia e nuova forza per vivere come veri cristiani questo tempo. Così riceveremo come dono anche la luce necessaria per contribuire alle soluzioni dei problemi che ci stanno di fronte. Vi saluto e vi benedico con le parole stesse dell’apostolo Pietro: “Il Dio di ogni grazia, il quale vi ha chiamati alla sua gloria eterna in Cristo Gesù, egli stesso, dopo che avrete un poco sofferto, vi ristabilirà, vi confermerà, vi rafforzerà, vi darà solide fondamenta. A lui la potenza nei secoli. Amen!” (1Pt. 5,10-11) (Fonte: Patriarcato di Gerusalemme).

Festa diocesana della pace

Domenica 26 gennaio - Lavello, Parrocchia San Mauro Martire

Festa della pace dell'Azione Cattolica, domenica 26 gennaio a Lavello, Chiesa di San Mauro

Domenica 26 gennaio tutti i ragazzi dell’ACR della diocesi di Melfi-Rapolla-Venosa si ritroveranno nella parrocchia di S. Mauro Martire a Lavello per vivere insieme la festa diocesana della pace.

I ragazzi sperimenteranno il protagonismo come degli attori nel mondo del cinema, ambientazione che fa da cornice al cammino di fede di questo anno associativo e che sarà filo conduttore anche della giornata del 26.

Slogan della festa sarà infatti “La Pace in azione”; è l’invito a vivere ogni gesto come il ciak iniziale di un racconto di pace: dall’accoglienza di chi ha sbagliato alla promozione di percorsi di riconciliazione e perdono.

La giornata di festa sarà ricca di attività e giochi all’insegna del divertimento e dello spirito di squadra, ma non mancheranno momenti, spunti e testimonianze che richiamano i bambini all’importanza dei gesti di pace di cui tutti possiamo essere promotori concreti nella quotidianità.

Di seguito il programma della giornata:
09:30 arrivo e accoglienza
10:00 divisione in squadre
10:15 partenza marcia della pace
11:00 Santa Messa
12:30 pranzo
13:30 giochi a Stand e testimonianze sull’iniziativa di pace
15:30 conclusione e saluti 
16:00 partenze

Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani: Messaggio delle Chiese cristiane in Italia

Celebrazione Ecumenica, 21 gennaio 2025 ore 18:30 - Cattedrale di Venosa

Care sorelle e Cari fratelli,
quest’anno il tradizionale messaggio di invito alla Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani (SPUC) ha molte più firme del solito. La decisione è stata presa nella seconda “Conversazione spirituale tra Chiese cristiane in Italia”; una terza è già in programma per il 16 giugno 2025. A Napoli, il 21 gennaio, tutte le Chiese firmatarie si uniranno in un incontro ecumenico nazionale che, nel 2026, avrà la forma di un Simposio nazionale. Nel 2025 ricorre l’anniversario della formulazione del Credo di Nicea (325), millesettecento anni. Le nostre Chiese riconoscono nelle sue formulazioni una compiuta espressione della fede cristiana che tutte condividono. Questo ci ricorda che a monte delle nostre storie, diverse e spesso divise, delle nostre diverse prospettive, c’è la stessa vocazione da parte dell’unico Signore Gesù Cristo, che tutti chiama all’obbedienza della fede. La comunione che viviamo, il dialogo che promuoviamo e l’unità che cerchiamo non sono dunque basate sui nostri buoni propositi, ma sulla comune chiamata a ricevere e testimoniare l’amore di Dio in Cristo. Al centro della Settimana di quest’anno c’è la domanda che Gesù rivolge a Marta nel racconto della resurrezione di Lazzaro: “Credi tu questo?” (Giovanni 11,26). Riceveremo anche noi, insieme, questa domanda, la stessa per tutti e posta dall’unico Signore, e saremo chiamati insieme a riflettere sulla nostra fede, sulla nostra testimonianza e sul nostro servizio, e a rispondere, ognuno e tutti. Disponiamoci dunque a condividere la gratitudine per la vocazione che abbiamo ricevuto e a rispondere alla domanda di Gesù a Marta, chiedendo allo Spirito di allargare i nostri cuori, di aprire le nostre menti, di orientare i nostri passi e di farci vivere la realtà della fraternità che supera le nostre storie particolari. Che il nostro incontrarci provenendo da strade diverse possa anche essere una testimonianza in tempi sempre più conflittuali.

Il coraggio di capovolgere la piramide

Pubblichiamo, per gentile concessione, il testo dell’intervento di S.E. REV.MA MONS. FELICE ACCROCCA, Arcivescovo Metropolita di Benevento, tenutosi il 10 gennaio 2025 durante l’incontro: “Aree interne: Nuove forme pastorali capaci leggere il presente e generare un cambiamento” presso l’Aula Consiliare del Comune di Melfi.

Il coraggio di capovolgere la piramide

Melfi (PZ), 10 gennaio 2025

Sembra impossibile, eppure cose che per alcuni sono scontate, per altri rischiano (drammaticamente) di diventare inutili e oziose, quasi si tratti di questioni di lana caprina, visto che le sentono tanto lontane da loro mentre ben diversi sono i problemi avvertiti come essenziali.

Sono le aree interne a colmare il divario tra nord e sud

E questo non tra nord e sud del mondo, ma nella stessa nazione, nella stessa regione, finanche nella stessa provincia: basti pensare che in Campania, dove vivo, la provincia di Caserta confina a sud con l’hinterland napoletano – perciò con la zona a più alta intensità abitativa d’Europa – e a nord-est con il Molise, dove la densità abitativa è invece tra le più basse in assoluto. Tutta la parte interna della Campania, del resto, è caratterizzata da territori in preda allo spopolamento, minacciati da un declino che sembra inarrestabile, affetti da un costante desiderio di fuga, con paesi che continuano a perdere gli abitanti più giovani, nei quali non si trovano quasi più negozi e dove da tempo le scuole, le poste e altri servizi essenziali hanno chiuso i battenti.

La Campania, peraltro, non è la sola regione a presentare simili contraddizioni. Una gran fetta d’Italia è stretta nella morsa di analoghi problemi e non solamente quella povera (di mezzi e d’infrastrutture) del centro o del sud, ma anche quella ricca del nord, dove in molte zone cinghiali e caprioli sopravanzano in gran numero le persone: è sulle aree interne che l’Italia finalmente si eguaglia, senza più differenze. La gente si ammassa nelle periferie delle grandi città, spopolando le aree collinari e montane; l’economia e l’alta finanza favoriscono questi flussi per tanti motivi, non da ultimo perché le masse anonime sono più facilmente manipolabili e la politica – persa dietro i sondaggi, divenuti ormai pane quotidiano – sembra incapace di pensare oltre la stretta contingenza, riducendosi molto spesso a rincorrere un immediato consenso.

L’urbanizzazione – meglio, la metropolizzazione – progressiva della popolazione italiana (ma la questione assume confini planetari) sta così causando la lenta morte d’interi territori, con grave danno per tutto il Paese; come nel corpo umano la necrosi di parte del tessuto organico costituisce infatti un danno grave per l’intero organismo, lo stesso avviene quando ci si trova di fronte all’abbandono di una parte del territorio: è la nazione intera a subirne detrimento, perché un territorio non presidiato dall’uomo è inevitabilmente sottoposto a una pressione maggiore delle forze della natura, con il rischio – facile da prevedere – di nuovi e accresciuti disastri ambientali, nonché di assistere alla perdita di una parte significativa di quell’immenso patrimonio artistico-architettonico che fa dell’Italia intera un museo a cielo aperto.

Strutture idonee a stabilire connessioni umane

Nel maggio 2019 i vescovi della Metropolia beneventana dettero l’allarme (cf. doc. Mezzanotte del Mezzogiorno? Lettera agli Amministratori): rifiutando l’idea che ormai i giochi fossero fatti e l’unica possibilità rimasta fosse una sorta di accanimento terapeutico finalizzato a ritardare, quanto più possibile, la morte dei propri territori, esortarono ad agire non in maniera disorganica o, ancor peggio, scomposta, ma attraverso una progettualità profetica, con «un progetto strategico di lunga gittata che miri a privilegiare l’interesse comune, il quale solo può consentire il benessere di tutti, singole persone come enti locali». Non volevano arrogarsi compiti non propri, piuttosto proporre un metodo che, in politica come in economia, tenesse fermo il primato della comunione. Prese avvio allora un percorso che ha avuto i suoi sviluppi (si può, al riguardo, consultare il sito www.faare.org).

Essi erano – e sono tuttora – convinti che un serio progetto per le aree interne potrebbe senz’altro avere ricadute positive, anche sul piano economico, per tutta la nazione. In un contesto in cui i rapporti umani sono più forti e stabili che non negli agglomerati urbani o – peggio ancora – nelle grandi metropoli, risultano difatti più facili anche quei legami di solidarietà che in altri contesti lo Stato deve impegnarsi a garantire con grosso dispendio economico e non sempre con efficienza e – ancor meno – con efficacia. Nei piccoli Comuni, molte persone si prendono cura dei vicini anziani, vigilando su di loro a distanza, come faceva Miriam, la sorella di Mosè, quando il fratello infante, posto in un cesto dalla madre, fu affidato alla Provvidenza. Ebbene, quante persone potrebbero vivere in modo più dignitoso e sereno la propria vecchiaia in questi territori invece che in tante case di riposo, e quanto beneficio economico ne trarrebbe lo Stato se vi fosse un progetto serio per rivitalizzare queste terre?

Illuminante, in proposito, è il film di Riccardo Milani, Un mondo a parte, che attraverso la vicenda di Michele Cortese, un maestro elementare il quale, dopo aver insegnato trent’anni nella periferia romana, con bimbi disinteressati e finanche minacciosi, chiede l’assegnazione provvisoria presso una scuola di Rupe, nell’alta Val di Sangro (si tratta in realtà di Opi, un paesino vicino Pescasseroli, nel Parco nazionale d’Abruzzo).

Nell’estate 2023 scrissi un articolo per una rivista delle scuole per l’infanzia, sostenendo che quella prima esperienza scolastica, in area interna, favorirebbe nei piccoli lo sviluppo di una struttura idonea alle connessioni umane, di un carattere più pronto ad affrontare le difficoltà agendo in autonomia, più idoneo a resistere alle sempre più pervasive pressioni dei social.

Non dobbiamo infatti dimenticare che i nostri ragazzi sono oggi abilissimi nello sviluppare rapporti in rete, ma poco attrezzati per quanto riguarda anche le più banali relazioni nella vita civile, al punto da apparire del tutto incapaci ad affrontare un impiegato dietro a uno sportello, dimostrandosi tanto impreparati a spiegare de visu, a voce e con calma, un reclamo, quanto sono invece abili a gridare la loro rabbia sui social. È quindi di una struttura idonea a stabilire connessioni umane che le persone hanno soprattutto bisogno, di un pensiero capace di elaborare criticamente le notizie per risultare meno manipolabili, per poter agire in autonomia limitando il più possibile i condizionamenti esterni. Ebbene, ritengo che, a tal fine, sia più facile porne le basi in una scuola dell’infanzia collocata in area interna.

Lo stesso potrebbe dirsi per tante attività educative finalizzate a favorire un rapporto diverso con l’ambiente, a sviluppare una mentalità non predatoria, ma dialogica, con i beni che la natura pone a disposizione dell’uomo (ancora una volta esemplare, in tal senso, è il film – già citato – di Riccardo Milani). Nei piccoli centri delle aree interne, a proposito, si potrebbe più facilmente abituare i piccoli al contatto con gli animali: far vedere loro i pulcini o addirittura i vitellini appena nati, far capire loro con quanto amore gli animali proteggono e nutrono i piccoli e che, in natura, uccidere uno dei genitori significa, automaticamente, condannare a morte anche la prole. Tutto ciò rappresenterebbe un miglioramento importante anche per la vita di tanta popolazione anziana.

Una questione decisiva: capovolgere la piramide

Le potenzialità sopraccennate, tuttavia, resteranno lettera morta se mancheranno i collegamenti tra il centro e la periferia. Perché mai un giovane dovrebbe trattenersi in un piccolo paese dell’entroterra fino a quando questo non sarà comunque facilmente collegabile con altri centri dove poter trovare quel che gli manca? Perché non assecondare il desiderio di novità che, soprattutto in età giovanile, è forte già di per sé? Credo che ogni discorso sia destinato a restare senza futuro fin quando non si rovescerà la piramide, fino a quando, cioè, nell’impiantare i servizi non si seguirà un criterio diametralmente opposto a quello che fino ad ora si è di norma seguito.

Mi spiego. Nel costruire nuove strade, nuove reti telematiche, si parte abitualmente dal centro per dirigersi poi verso le periferie, con il rischio – per nulla evitato – che alle periferie non si arrivi e invece ci si fermi a metà strada, per motivi che tutti ben conosciamo: le lentezze burocratiche rallentano spesso i lavori, i prezzi lievitano al punto che il preventivo fatto in partenza dev’essere rivisto e il finanziamento previsto non basta più a coprire le spese, facendo sì che i lavori restino incompiuti. Cosa che si è spesso già verificata e – facile profezia – si verificherà ancora, facendo sì che le zone più lontane e meno servite debbano subire penalizzazioni ulteriori.

Viceversa, capovolgendo la piramide, partendo cioè dalle periferie, sarebbe impossibile lasciare sprovvisto il centro: infatti, non si potrebbero certo lasciare Napoli, Roma o Torino sprovviste di banda larga (e di fatto non lo sono), quando ne fossero stati provvisti i piccoli paesi del Sannio e dell’Irpinia, dell’entroterra reatino, delle valli piemontesi più interne e lontane (che molte volte – troppe! – fanno in realtà fatica ad accedere alla rete in modo veloce e competitivo). Faccio un esempio, piccolo e poco noto, ma che tocca direttamente la mia terra: la strada Fortorina è nata per collegare Benevento a San Bartolomeo in Galdo ed aprire così anche un canale veloce tra Pietrelcina, patria di san Pio, e San Giovanni Rotondo, dove il santo frate è vissuto a lungo e dove riposano le sue spoglie. Se quella strada la si fosse iniziata a costruire partendo da San Bartolomeo in Galdo, cioè dalla periferia, oggi sarebbe ultimata, in quanto finché non avesse raggiunto il capoluogo di provincia sarebbe stata ritenuta di fatto inservibile. Viceversa, si decise di partire da Benevento e così, dopo decenni, il tratto ultimato si ferma attualmente a San Marco dei Cavoti, corrispondente a poco meno della metà del percorso originariamente previsto.

Basti questo per dire che finché non si rovescerà la prospettiva – ciò che starebbe a significare anche un cambio radicale di mentalità –, la distanza tra centro e periferia sarà destinata ad accrescersi sempre più, con ulteriore impoverimento delle aree giù più isolate.

Tuttavia, ciò non si verificherà senza una politica forte, capace d’imporre all’alta finanza scelte che l’alta finanza da sola non farà mai, perché contrarie ai propri interessi. Perché mai, infatti, le ditte, per installare la banda larga, dovrebbero partire da zone con pochi clienti riservando a un secondo momento la copertura di quei territori dove la popolazione invece si addensa? In una parola, perché partire dall’osso quando si può subito azzannare la polpa? Solo una politica forte, degna di questo nome, con un’alta visione di quello che è il proprio ruolo e il proprio compito, potrebbe imporre scelte, facendosi valere non solo di fronte ai potentati economici, ma alla maggioranza stessa della popolazione. Purtroppo – l’ho detto già, e non me ne vogliano i politici presenti – mi sembra che a dettar legge siano invece i sondaggi, che richiedono continuamente di aggiustare il tiro per riguadagnare il consenso eventualmente perduto.

Altre questioni da affrontare

Mi permetto inoltre di porre una questione ulteriore, che potrà essere valutata e discussa – qualora se ne riconoscesse la fondatezza – da chi ha la competenza e l’autorità per farlo: molte cose potrebbero in effetti cambiare se il criterio del numero degli abitanti non fosse l’unico in base al quale assegnare le risorse; seguendo tale criterio, infatti, le Aree interne, povere di popolazione, finiscono per ritrovarsi prive di risorse, e ciò anche se molte volte debbono provvedere a territori vasti, spesso collinari o montani, dove l’orografia rende le comunicazioni più difficili e – quindi – più dispendiose. Perché non tener conto, quando si assegnano le risorse, anche della superficie e della tipologia del territorio a cui la popolazione che ne beneficia deve provvedere?

E non sarebbe possibile istituire tassazioni differenziate per categorie che, lavorando in zone e con volumi diversi, producono anche guadagni fortemente variegati? È giusto, infatti, tassare allo stesso modo un bar situato nel centro di Roma, magari all’uscita delle grandi stazioni ferroviarie o metropolitane, che alle otto di mattina ha fatto già centinaia di caffè e venduto altrettanti cornetti, e i bar dei nostri piccoli paesini che alla sera di caffè ne avranno fatti sì e no poche decine?

È chiaro, però, che questo richiede anche un tributo da parte della nostra gente: se si vuole che i piccoli esercizi continuino a vivere in tanti piccoli paesi, perché – mantenendo viva la dimensione sociale – contribuiscono in modo determinante alla qualità della vita, è infatti necessario che tutti siano disposti ad aggiungere al prezzo da pagare anche un ulteriore tributo in grado di compensare quella qualità di vita che i piccoli esercizi mantengono alta, dal momento che un esercizio commerciale non è soltanto un locale in cui si fanno acquisti, ma un punto naturale d’incontro che offre alla gente delle ragioni di vita. Quando un negozio chiude è un pezzo di paese che muore; quando i negozi non ci saranno più, non ci sarà più neppure il paese. Con tutta evidenza, un piccolo negozio non può tuttavia essere competitivo nei prezzi con un grande centro commerciale: non si può pensare, allora, che gli abitanti dei piccoli paesi facciano spesa nei grandi centri commerciali salvo poi acquistare in loco quelle poche cose che ci si è dimenticati di prendere in città; essi dovranno quindi essere disposti a far vivere i loro negozi pagando qualcosa in più, perché da quelli non acquistano solo prodotti, ma ricevono qualità di vita.

Imparare a lavorare in rete

C’è poi un altro aspetto sul quale riflettere e lavorare insieme. Il primo ostacolo da superare – a livello sia ecclesiale che civile – resta difatti la difficoltà a costituirsi in rete, a unire le forze, giacché l’orizzonte ristretto ha spesso spinto a scelte individuali piuttosto che a fare gioco di squadra, con il risultato paradossale di vedere Comuni molto vicini tra loro costruire nuovi edifici scolastici quando né gli uni né gli altri avevano bambini sufficienti per riempirli. E lo stesso può dirsi a livello ecclesiale, con la moltiplicazione di strutture che poi finiscano per restare inutilizzate. Se cediamo alla tentazione di voler fare tutto da soli per dire a tutti che siamo più bravi degli altri, andremo incontro a un suicidio collettivo: ogni Comune non potrà avere tutto, perché quand’anche trovasse i fondi per realizzare una qualsiasi struttura, non li avrebbe poi per mantenerla in vita. Lo stesso discorso vale per le parrocchie e – ad alcuni livelli – anche per le diocesi. Dobbiamo agire uniti pensando che l’insieme non sia un solo Comune o una sola parrocchia, evitando di mettere in piedi duplicati che non potremo mantenere, servendoci gli uni delle strutture degli altri, spostandoci anche, quando è necessario, perché ormai ci si sposta per ogni cosa (ci si sposta anche nelle grandi città o nelle metropoli, con la differenza che lo spreco di tempo e lo stress che là ne derivano risultano moltiplicati).

Una pastorale per le Aree interne

Cammin facendo, si è andata inoltre manifestando in maniera crescente l’esigenza di mettere a fuoco la questione anche da un punto di vista più strettamente pastorale, poiché le aree interne si trovano a fronteggiare problemi del tutto diversi da quelli con cui sono chiamate invece a misurarsi le aree urbane o metropolitane o turistiche: molti piani pastorali disegnati a livello nazionale, in realtà, sono più tagliati per una dimensione cittadina che non per le zone dell’entroterra (ad esempio, si discute spesso dell’impiego nella pastorale catechistica dei mezzi audiovisivi quando in simili realtà mancano i bambini, dell’utilizzo di Internet quando nei piccoli paesi si fatica ad avere la rete WiFi, di pastorale familiare quando il più delle volte le giovani famiglie sono una vera e propria rarità…).

È per questo che ogni anno (nell’estate 2024 si era già al quarto appuntamento), decine di vescovi (quest’anno erano oltre trenta, provenienti da tredici diverse Regioni italiane, dal Piemonte fino alla Calabria, Sicilia e Sardegna, con la partecipazione dei vertici della CEI, vale a dire del Cardinale Presidente, Matteo Zuppi, e del Segretario Generale, Giuseppe Baturi) si ritrovano per due giorni a Benevento al fine di avviare un confronto con l’obiettivo, se non di enucleare una pastorale per le aree interne, almeno di abbozzarne qualche linea.

Certo, in queste zone – e soprattutto al sud – sembra avere ancora una forte presa la religiosità popolare con le sue tradizioni e i suoi riti che, in molte circostanze, finiscono per prescindere da un vissuto di fede: ci si deve dunque domandare come valorizzare l’esistente, purificando evidenti anomalie ed evitando, al tempo stesso, di gettare quanto vi è di buono assieme all’acqua sporca. Ugualmente complessa da affrontare è la possibilità di vedere nei flussi migratori, sempre più frequenti, un sostegno per i molti paesi oggi soggetti a un decremento progressivo della popolazione, dato che una simile evenienza pone il problema di pensare una pastorale attenta alle relazioni ecumeniche e interreligiose che, allo stato attuale, è in gran parte ancora sulla carta.

“Un mondo a parte”

Mi avvio a chiudere tornando, ancora una volta al bel film di Milani, il cui grido di battaglia è «La montagna lo fa», cambia cioè persone e cose (anche se non sempre, sia detto per onestà, le migliora). Trasferitosi nella piccola scuola di montagna di Rupe, il maestro elementare Michele si trova davanti pochi alunni – una pluriclasse con prima, terza e quinta elementare – in una scuola che rischia di chiudere i battenti e per mancanza d’iscritti e per la tragica lotta scatenatasi tra poveri pure accumunati dal medesimo destino, cancro pervasivo che spinge a dividere le forze piuttosto che ad unirle: a minacciare la scuola di Rupe sono infatti anche le mire del preside dell’istituto comprensivo e, soprattutto, del sindaco del paese vicino di poco più grande, il quale non esita a ricorrere a colpi bassi pur di raggiungere il proprio obiettivo. Si tratta allora di salvare la scuola da un possibile accorpamento, al fine di evitare che il paese faccia la fine di Sperone, un altro piccolo agglomerato di case abbandonato da tutti i suoi abitanti dopo che la scuola era stata chiusa.

Il vero male da combattere è tuttavia la rassegnazione, «che si mangia a morsi, come la scamorza», e la frammentazione, generata da piccole invidie e dal comportamento rinunciatario dei più, che spinge perfino a desiderare il fallimento di chi vorrebbe invece reagire: «E così sono tutti contenti. Tutti perdenti, tutti contenti», dice la vicepreside Agnese a Michele nel commentare la decisione di Duilio, un giovane che ha invece deciso di restare motivando la sua scelta con una semplice affermazione difficile da contrastare: «Perché io qua sto bene mae’! Perché devo andare via da casa mia?».

L’impresa nella quale si coalizzano tutti (personale scolastico, istituzioni e paesani), sarà perciò quella di salvare la scuola aggregando ai pochi alunni del posto bimbi ucraini e nordafricani (quest’ultimi ormai di seconda generazione, pienamente padroni del dialetto locale). «La montagna lo fa»! E in effetti a Rupe Michele diventa un altro: da idealista con i piedi per aria, decontestualizzato (capace di citare ai genitori di Duilio, contrariati dalla decisione del figlio, concetti sulla «restanza» tratti dal libro di Vito Teti), si trasforma in una persona sicura di sé, decisa a tutto pur di raggiungere l’obiettivo.

Il film è ben condotto, anche se con qualche caduta, e gli attori si rivelano all’altezza della situazione, non solo per la bellissima prova offerta da Antonio Albanese (il maestro Michele) e Virginia Raffaele (la vicepreside Agnese), ma anche da tutti quegli interpreti non professionisti, piccoli e grandi, che arricchiscono il quadro, a volte traendo spunto da storie reali, come quella di Duilio, il quale – proprio come nel film – ha davvero messo su un’azienda agricola che produce cereali («I primi cinque chili di lenticchie te li compro io», gli promette Agnese, che l’incoraggia nell’impresa). La stessa parlata dialettale, libera da fronzoli e pudori, va dritta al cuore dei ragionamenti e delle cose. Con Un mondo a parte, Milani mette così il dito sulla piaga, trattando questioni che dovremo affrontare anche noi, rimboccandoci le maniche tutti insieme.

Una parola per concludere

C’è bisogno d’intelligenza politica e d’intelligenza pastorale per ravvivare luoghi in cui la vita rischia di finire e dove – paradossalmente – essa può invece assumere una qualità superiore: perché i giovani che lasciano i loro paesi per i grandi centri, non vanno certo ad abitare a piazza Navona a Roma o nella zona centrale e più chic di Milano; vanno, essenzialmente, a infoltire l’anonimato delle periferie. È dunque qui, nelle Aree interne, dove la vita non vuole morire, che si gioca il futuro della nazione. Da allora, da quel maggio 2019, quando i vescovi – intervenendo sulla questione – ruppero un silenzio che era divenuto assordante, il tema è divenuto ormai quasi di moda. C’è da augurarsi che esso assuma la sua centralità anche nell’agenda del governo e la questione venga finalmente affrontata con rigore, intelligenza e, soprattutto, con una progettualità a lungo raggio.

 

+Felice Accrocca
Arcivescovo Metropolita di Benevento


La parola N. 6 dicembre 2024

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L’editoriale

“La famiglia è famiglia”

Bentrovati nel nuovo numero del nostro giornale diocesano. Il tema che abbiamo voluto mettere al centro per accompagnarci in questo trimestre è la famiglia. “Non possiamo qualificare una famiglia con concetti ideologici, non possiamo parlare di famiglia conservatrice e di famiglia progressista. La famiglia è famiglia!» Dice Papa Francesco nella lettera inviata al presidente del Pontificio Consiglio per la famiglia, in vista dell’Incontro mondiale del 2015 a Filadelfia negli Stati Uniti. Ed è sulla famiglia che abbiamo immaginato la costruzione di questa edizione che abbraccia anche il periodo di Natale. E Natale, si sa, è famiglia. A partire da quella di Nazareth, la prima chiesa domestica, il modello da imitare. Ma cosa accade nelle chiese domestiche di oggi? Nel tempo che stiamo vivendo la famiglia è ancora una comunità credente ed evangelizzante? Abbiamo cercato di dare una lettura del mondo che ci circonda a partire dalla nostra Diocesi con la preziosa riflessione del Vescovo S.E. Mons. Fanelli che, ancor di più in questo “tempo difficile e complesso”, ci regala una similitudine di grande bellezza “la comunità cristiana deve avere il sapore della famiglia e la famiglia il profumo della chiesa”. E l’analisi della famiglia nel nostro tempo prosegue con il ricco approfondimento dei direttori dell’Ufficio Diocesano Pastorale Familiare, Matilde Calandrelli e Raffale Tummolo, dal titolo emblematico “Famiglia…bella sfida!”. Un articolo davvero interessante che si arricchisce dell’intervista a Emma Ciccarelli e Pier Marco Trulli, collaboratori dell’Ufficio Nazionale Famiglia della Conferenza Episcopale Italiana. Non solo. In questo numero troverete l’inaugurazione della Mensa Solidale “La casa di Marta e Maria” a Melfi, una casa e una famiglia per tutti coloro che ne hanno necessità. Troverete la giornata del fanciullo e la settimana biblica, ma parleremo anche della prosecuzione della visita Pastorale e di Pro Loco tra promozione culturale e custodia delle tradizioni.

Come diceva Madre Teresa di Calcutta “Se vuoi cambiare il mondo, vai a casa e ama la tua famiglia”. Buona lettura!

Lucia Nardiello
Direttore Responsabile

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