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Il coraggio di capovolgere la piramide

Pubblichiamo, per gentile concessione, il testo dell’intervento di S.E. REV.MA MONS. FELICE ACCROCCA, Arcivescovo Metropolita di Benevento, tenutosi il 10 gennaio 2025 durante l’incontro: “Aree interne: Nuove forme pastorali capaci leggere il presente e generare un cambiamento” presso l’Aula Consiliare del Comune di Melfi.

Il coraggio di capovolgere la piramide

Melfi (PZ), 10 gennaio 2025

Sembra impossibile, eppure cose che per alcuni sono scontate, per altri rischiano (drammaticamente) di diventare inutili e oziose, quasi si tratti di questioni di lana caprina, visto che le sentono tanto lontane da loro mentre ben diversi sono i problemi avvertiti come essenziali.

Sono le aree interne a colmare il divario tra nord e sud

E questo non tra nord e sud del mondo, ma nella stessa nazione, nella stessa regione, finanche nella stessa provincia: basti pensare che in Campania, dove vivo, la provincia di Caserta confina a sud con l’hinterland napoletano – perciò con la zona a più alta intensità abitativa d’Europa – e a nord-est con il Molise, dove la densità abitativa è invece tra le più basse in assoluto. Tutta la parte interna della Campania, del resto, è caratterizzata da territori in preda allo spopolamento, minacciati da un declino che sembra inarrestabile, affetti da un costante desiderio di fuga, con paesi che continuano a perdere gli abitanti più giovani, nei quali non si trovano quasi più negozi e dove da tempo le scuole, le poste e altri servizi essenziali hanno chiuso i battenti.

La Campania, peraltro, non è la sola regione a presentare simili contraddizioni. Una gran fetta d’Italia è stretta nella morsa di analoghi problemi e non solamente quella povera (di mezzi e d’infrastrutture) del centro o del sud, ma anche quella ricca del nord, dove in molte zone cinghiali e caprioli sopravanzano in gran numero le persone: è sulle aree interne che l’Italia finalmente si eguaglia, senza più differenze. La gente si ammassa nelle periferie delle grandi città, spopolando le aree collinari e montane; l’economia e l’alta finanza favoriscono questi flussi per tanti motivi, non da ultimo perché le masse anonime sono più facilmente manipolabili e la politica – persa dietro i sondaggi, divenuti ormai pane quotidiano – sembra incapace di pensare oltre la stretta contingenza, riducendosi molto spesso a rincorrere un immediato consenso.

L’urbanizzazione – meglio, la metropolizzazione – progressiva della popolazione italiana (ma la questione assume confini planetari) sta così causando la lenta morte d’interi territori, con grave danno per tutto il Paese; come nel corpo umano la necrosi di parte del tessuto organico costituisce infatti un danno grave per l’intero organismo, lo stesso avviene quando ci si trova di fronte all’abbandono di una parte del territorio: è la nazione intera a subirne detrimento, perché un territorio non presidiato dall’uomo è inevitabilmente sottoposto a una pressione maggiore delle forze della natura, con il rischio – facile da prevedere – di nuovi e accresciuti disastri ambientali, nonché di assistere alla perdita di una parte significativa di quell’immenso patrimonio artistico-architettonico che fa dell’Italia intera un museo a cielo aperto.

Strutture idonee a stabilire connessioni umane

Nel maggio 2019 i vescovi della Metropolia beneventana dettero l’allarme (cf. doc. Mezzanotte del Mezzogiorno? Lettera agli Amministratori): rifiutando l’idea che ormai i giochi fossero fatti e l’unica possibilità rimasta fosse una sorta di accanimento terapeutico finalizzato a ritardare, quanto più possibile, la morte dei propri territori, esortarono ad agire non in maniera disorganica o, ancor peggio, scomposta, ma attraverso una progettualità profetica, con «un progetto strategico di lunga gittata che miri a privilegiare l’interesse comune, il quale solo può consentire il benessere di tutti, singole persone come enti locali». Non volevano arrogarsi compiti non propri, piuttosto proporre un metodo che, in politica come in economia, tenesse fermo il primato della comunione. Prese avvio allora un percorso che ha avuto i suoi sviluppi (si può, al riguardo, consultare il sito www.faare.org).

Essi erano – e sono tuttora – convinti che un serio progetto per le aree interne potrebbe senz’altro avere ricadute positive, anche sul piano economico, per tutta la nazione. In un contesto in cui i rapporti umani sono più forti e stabili che non negli agglomerati urbani o – peggio ancora – nelle grandi metropoli, risultano difatti più facili anche quei legami di solidarietà che in altri contesti lo Stato deve impegnarsi a garantire con grosso dispendio economico e non sempre con efficienza e – ancor meno – con efficacia. Nei piccoli Comuni, molte persone si prendono cura dei vicini anziani, vigilando su di loro a distanza, come faceva Miriam, la sorella di Mosè, quando il fratello infante, posto in un cesto dalla madre, fu affidato alla Provvidenza. Ebbene, quante persone potrebbero vivere in modo più dignitoso e sereno la propria vecchiaia in questi territori invece che in tante case di riposo, e quanto beneficio economico ne trarrebbe lo Stato se vi fosse un progetto serio per rivitalizzare queste terre?

Illuminante, in proposito, è il film di Riccardo Milani, Un mondo a parte, che attraverso la vicenda di Michele Cortese, un maestro elementare il quale, dopo aver insegnato trent’anni nella periferia romana, con bimbi disinteressati e finanche minacciosi, chiede l’assegnazione provvisoria presso una scuola di Rupe, nell’alta Val di Sangro (si tratta in realtà di Opi, un paesino vicino Pescasseroli, nel Parco nazionale d’Abruzzo).

Nell’estate 2023 scrissi un articolo per una rivista delle scuole per l’infanzia, sostenendo che quella prima esperienza scolastica, in area interna, favorirebbe nei piccoli lo sviluppo di una struttura idonea alle connessioni umane, di un carattere più pronto ad affrontare le difficoltà agendo in autonomia, più idoneo a resistere alle sempre più pervasive pressioni dei social.

Non dobbiamo infatti dimenticare che i nostri ragazzi sono oggi abilissimi nello sviluppare rapporti in rete, ma poco attrezzati per quanto riguarda anche le più banali relazioni nella vita civile, al punto da apparire del tutto incapaci ad affrontare un impiegato dietro a uno sportello, dimostrandosi tanto impreparati a spiegare de visu, a voce e con calma, un reclamo, quanto sono invece abili a gridare la loro rabbia sui social. È quindi di una struttura idonea a stabilire connessioni umane che le persone hanno soprattutto bisogno, di un pensiero capace di elaborare criticamente le notizie per risultare meno manipolabili, per poter agire in autonomia limitando il più possibile i condizionamenti esterni. Ebbene, ritengo che, a tal fine, sia più facile porne le basi in una scuola dell’infanzia collocata in area interna.

Lo stesso potrebbe dirsi per tante attività educative finalizzate a favorire un rapporto diverso con l’ambiente, a sviluppare una mentalità non predatoria, ma dialogica, con i beni che la natura pone a disposizione dell’uomo (ancora una volta esemplare, in tal senso, è il film – già citato – di Riccardo Milani). Nei piccoli centri delle aree interne, a proposito, si potrebbe più facilmente abituare i piccoli al contatto con gli animali: far vedere loro i pulcini o addirittura i vitellini appena nati, far capire loro con quanto amore gli animali proteggono e nutrono i piccoli e che, in natura, uccidere uno dei genitori significa, automaticamente, condannare a morte anche la prole. Tutto ciò rappresenterebbe un miglioramento importante anche per la vita di tanta popolazione anziana.

Una questione decisiva: capovolgere la piramide

Le potenzialità sopraccennate, tuttavia, resteranno lettera morta se mancheranno i collegamenti tra il centro e la periferia. Perché mai un giovane dovrebbe trattenersi in un piccolo paese dell’entroterra fino a quando questo non sarà comunque facilmente collegabile con altri centri dove poter trovare quel che gli manca? Perché non assecondare il desiderio di novità che, soprattutto in età giovanile, è forte già di per sé? Credo che ogni discorso sia destinato a restare senza futuro fin quando non si rovescerà la piramide, fino a quando, cioè, nell’impiantare i servizi non si seguirà un criterio diametralmente opposto a quello che fino ad ora si è di norma seguito.

Mi spiego. Nel costruire nuove strade, nuove reti telematiche, si parte abitualmente dal centro per dirigersi poi verso le periferie, con il rischio – per nulla evitato – che alle periferie non si arrivi e invece ci si fermi a metà strada, per motivi che tutti ben conosciamo: le lentezze burocratiche rallentano spesso i lavori, i prezzi lievitano al punto che il preventivo fatto in partenza dev’essere rivisto e il finanziamento previsto non basta più a coprire le spese, facendo sì che i lavori restino incompiuti. Cosa che si è spesso già verificata e – facile profezia – si verificherà ancora, facendo sì che le zone più lontane e meno servite debbano subire penalizzazioni ulteriori.

Viceversa, capovolgendo la piramide, partendo cioè dalle periferie, sarebbe impossibile lasciare sprovvisto il centro: infatti, non si potrebbero certo lasciare Napoli, Roma o Torino sprovviste di banda larga (e di fatto non lo sono), quando ne fossero stati provvisti i piccoli paesi del Sannio e dell’Irpinia, dell’entroterra reatino, delle valli piemontesi più interne e lontane (che molte volte – troppe! – fanno in realtà fatica ad accedere alla rete in modo veloce e competitivo). Faccio un esempio, piccolo e poco noto, ma che tocca direttamente la mia terra: la strada Fortorina è nata per collegare Benevento a San Bartolomeo in Galdo ed aprire così anche un canale veloce tra Pietrelcina, patria di san Pio, e San Giovanni Rotondo, dove il santo frate è vissuto a lungo e dove riposano le sue spoglie. Se quella strada la si fosse iniziata a costruire partendo da San Bartolomeo in Galdo, cioè dalla periferia, oggi sarebbe ultimata, in quanto finché non avesse raggiunto il capoluogo di provincia sarebbe stata ritenuta di fatto inservibile. Viceversa, si decise di partire da Benevento e così, dopo decenni, il tratto ultimato si ferma attualmente a San Marco dei Cavoti, corrispondente a poco meno della metà del percorso originariamente previsto.

Basti questo per dire che finché non si rovescerà la prospettiva – ciò che starebbe a significare anche un cambio radicale di mentalità –, la distanza tra centro e periferia sarà destinata ad accrescersi sempre più, con ulteriore impoverimento delle aree giù più isolate.

Tuttavia, ciò non si verificherà senza una politica forte, capace d’imporre all’alta finanza scelte che l’alta finanza da sola non farà mai, perché contrarie ai propri interessi. Perché mai, infatti, le ditte, per installare la banda larga, dovrebbero partire da zone con pochi clienti riservando a un secondo momento la copertura di quei territori dove la popolazione invece si addensa? In una parola, perché partire dall’osso quando si può subito azzannare la polpa? Solo una politica forte, degna di questo nome, con un’alta visione di quello che è il proprio ruolo e il proprio compito, potrebbe imporre scelte, facendosi valere non solo di fronte ai potentati economici, ma alla maggioranza stessa della popolazione. Purtroppo – l’ho detto già, e non me ne vogliano i politici presenti – mi sembra che a dettar legge siano invece i sondaggi, che richiedono continuamente di aggiustare il tiro per riguadagnare il consenso eventualmente perduto.

Altre questioni da affrontare

Mi permetto inoltre di porre una questione ulteriore, che potrà essere valutata e discussa – qualora se ne riconoscesse la fondatezza – da chi ha la competenza e l’autorità per farlo: molte cose potrebbero in effetti cambiare se il criterio del numero degli abitanti non fosse l’unico in base al quale assegnare le risorse; seguendo tale criterio, infatti, le Aree interne, povere di popolazione, finiscono per ritrovarsi prive di risorse, e ciò anche se molte volte debbono provvedere a territori vasti, spesso collinari o montani, dove l’orografia rende le comunicazioni più difficili e – quindi – più dispendiose. Perché non tener conto, quando si assegnano le risorse, anche della superficie e della tipologia del territorio a cui la popolazione che ne beneficia deve provvedere?

E non sarebbe possibile istituire tassazioni differenziate per categorie che, lavorando in zone e con volumi diversi, producono anche guadagni fortemente variegati? È giusto, infatti, tassare allo stesso modo un bar situato nel centro di Roma, magari all’uscita delle grandi stazioni ferroviarie o metropolitane, che alle otto di mattina ha fatto già centinaia di caffè e venduto altrettanti cornetti, e i bar dei nostri piccoli paesini che alla sera di caffè ne avranno fatti sì e no poche decine?

È chiaro, però, che questo richiede anche un tributo da parte della nostra gente: se si vuole che i piccoli esercizi continuino a vivere in tanti piccoli paesi, perché – mantenendo viva la dimensione sociale – contribuiscono in modo determinante alla qualità della vita, è infatti necessario che tutti siano disposti ad aggiungere al prezzo da pagare anche un ulteriore tributo in grado di compensare quella qualità di vita che i piccoli esercizi mantengono alta, dal momento che un esercizio commerciale non è soltanto un locale in cui si fanno acquisti, ma un punto naturale d’incontro che offre alla gente delle ragioni di vita. Quando un negozio chiude è un pezzo di paese che muore; quando i negozi non ci saranno più, non ci sarà più neppure il paese. Con tutta evidenza, un piccolo negozio non può tuttavia essere competitivo nei prezzi con un grande centro commerciale: non si può pensare, allora, che gli abitanti dei piccoli paesi facciano spesa nei grandi centri commerciali salvo poi acquistare in loco quelle poche cose che ci si è dimenticati di prendere in città; essi dovranno quindi essere disposti a far vivere i loro negozi pagando qualcosa in più, perché da quelli non acquistano solo prodotti, ma ricevono qualità di vita.

Imparare a lavorare in rete

C’è poi un altro aspetto sul quale riflettere e lavorare insieme. Il primo ostacolo da superare – a livello sia ecclesiale che civile – resta difatti la difficoltà a costituirsi in rete, a unire le forze, giacché l’orizzonte ristretto ha spesso spinto a scelte individuali piuttosto che a fare gioco di squadra, con il risultato paradossale di vedere Comuni molto vicini tra loro costruire nuovi edifici scolastici quando né gli uni né gli altri avevano bambini sufficienti per riempirli. E lo stesso può dirsi a livello ecclesiale, con la moltiplicazione di strutture che poi finiscano per restare inutilizzate. Se cediamo alla tentazione di voler fare tutto da soli per dire a tutti che siamo più bravi degli altri, andremo incontro a un suicidio collettivo: ogni Comune non potrà avere tutto, perché quand’anche trovasse i fondi per realizzare una qualsiasi struttura, non li avrebbe poi per mantenerla in vita. Lo stesso discorso vale per le parrocchie e – ad alcuni livelli – anche per le diocesi. Dobbiamo agire uniti pensando che l’insieme non sia un solo Comune o una sola parrocchia, evitando di mettere in piedi duplicati che non potremo mantenere, servendoci gli uni delle strutture degli altri, spostandoci anche, quando è necessario, perché ormai ci si sposta per ogni cosa (ci si sposta anche nelle grandi città o nelle metropoli, con la differenza che lo spreco di tempo e lo stress che là ne derivano risultano moltiplicati).

Una pastorale per le Aree interne

Cammin facendo, si è andata inoltre manifestando in maniera crescente l’esigenza di mettere a fuoco la questione anche da un punto di vista più strettamente pastorale, poiché le aree interne si trovano a fronteggiare problemi del tutto diversi da quelli con cui sono chiamate invece a misurarsi le aree urbane o metropolitane o turistiche: molti piani pastorali disegnati a livello nazionale, in realtà, sono più tagliati per una dimensione cittadina che non per le zone dell’entroterra (ad esempio, si discute spesso dell’impiego nella pastorale catechistica dei mezzi audiovisivi quando in simili realtà mancano i bambini, dell’utilizzo di Internet quando nei piccoli paesi si fatica ad avere la rete WiFi, di pastorale familiare quando il più delle volte le giovani famiglie sono una vera e propria rarità…).

È per questo che ogni anno (nell’estate 2024 si era già al quarto appuntamento), decine di vescovi (quest’anno erano oltre trenta, provenienti da tredici diverse Regioni italiane, dal Piemonte fino alla Calabria, Sicilia e Sardegna, con la partecipazione dei vertici della CEI, vale a dire del Cardinale Presidente, Matteo Zuppi, e del Segretario Generale, Giuseppe Baturi) si ritrovano per due giorni a Benevento al fine di avviare un confronto con l’obiettivo, se non di enucleare una pastorale per le aree interne, almeno di abbozzarne qualche linea.

Certo, in queste zone – e soprattutto al sud – sembra avere ancora una forte presa la religiosità popolare con le sue tradizioni e i suoi riti che, in molte circostanze, finiscono per prescindere da un vissuto di fede: ci si deve dunque domandare come valorizzare l’esistente, purificando evidenti anomalie ed evitando, al tempo stesso, di gettare quanto vi è di buono assieme all’acqua sporca. Ugualmente complessa da affrontare è la possibilità di vedere nei flussi migratori, sempre più frequenti, un sostegno per i molti paesi oggi soggetti a un decremento progressivo della popolazione, dato che una simile evenienza pone il problema di pensare una pastorale attenta alle relazioni ecumeniche e interreligiose che, allo stato attuale, è in gran parte ancora sulla carta.

“Un mondo a parte”

Mi avvio a chiudere tornando, ancora una volta al bel film di Milani, il cui grido di battaglia è «La montagna lo fa», cambia cioè persone e cose (anche se non sempre, sia detto per onestà, le migliora). Trasferitosi nella piccola scuola di montagna di Rupe, il maestro elementare Michele si trova davanti pochi alunni – una pluriclasse con prima, terza e quinta elementare – in una scuola che rischia di chiudere i battenti e per mancanza d’iscritti e per la tragica lotta scatenatasi tra poveri pure accumunati dal medesimo destino, cancro pervasivo che spinge a dividere le forze piuttosto che ad unirle: a minacciare la scuola di Rupe sono infatti anche le mire del preside dell’istituto comprensivo e, soprattutto, del sindaco del paese vicino di poco più grande, il quale non esita a ricorrere a colpi bassi pur di raggiungere il proprio obiettivo. Si tratta allora di salvare la scuola da un possibile accorpamento, al fine di evitare che il paese faccia la fine di Sperone, un altro piccolo agglomerato di case abbandonato da tutti i suoi abitanti dopo che la scuola era stata chiusa.

Il vero male da combattere è tuttavia la rassegnazione, «che si mangia a morsi, come la scamorza», e la frammentazione, generata da piccole invidie e dal comportamento rinunciatario dei più, che spinge perfino a desiderare il fallimento di chi vorrebbe invece reagire: «E così sono tutti contenti. Tutti perdenti, tutti contenti», dice la vicepreside Agnese a Michele nel commentare la decisione di Duilio, un giovane che ha invece deciso di restare motivando la sua scelta con una semplice affermazione difficile da contrastare: «Perché io qua sto bene mae’! Perché devo andare via da casa mia?».

L’impresa nella quale si coalizzano tutti (personale scolastico, istituzioni e paesani), sarà perciò quella di salvare la scuola aggregando ai pochi alunni del posto bimbi ucraini e nordafricani (quest’ultimi ormai di seconda generazione, pienamente padroni del dialetto locale). «La montagna lo fa»! E in effetti a Rupe Michele diventa un altro: da idealista con i piedi per aria, decontestualizzato (capace di citare ai genitori di Duilio, contrariati dalla decisione del figlio, concetti sulla «restanza» tratti dal libro di Vito Teti), si trasforma in una persona sicura di sé, decisa a tutto pur di raggiungere l’obiettivo.

Il film è ben condotto, anche se con qualche caduta, e gli attori si rivelano all’altezza della situazione, non solo per la bellissima prova offerta da Antonio Albanese (il maestro Michele) e Virginia Raffaele (la vicepreside Agnese), ma anche da tutti quegli interpreti non professionisti, piccoli e grandi, che arricchiscono il quadro, a volte traendo spunto da storie reali, come quella di Duilio, il quale – proprio come nel film – ha davvero messo su un’azienda agricola che produce cereali («I primi cinque chili di lenticchie te li compro io», gli promette Agnese, che l’incoraggia nell’impresa). La stessa parlata dialettale, libera da fronzoli e pudori, va dritta al cuore dei ragionamenti e delle cose. Con Un mondo a parte, Milani mette così il dito sulla piaga, trattando questioni che dovremo affrontare anche noi, rimboccandoci le maniche tutti insieme.

Una parola per concludere

C’è bisogno d’intelligenza politica e d’intelligenza pastorale per ravvivare luoghi in cui la vita rischia di finire e dove – paradossalmente – essa può invece assumere una qualità superiore: perché i giovani che lasciano i loro paesi per i grandi centri, non vanno certo ad abitare a piazza Navona a Roma o nella zona centrale e più chic di Milano; vanno, essenzialmente, a infoltire l’anonimato delle periferie. È dunque qui, nelle Aree interne, dove la vita non vuole morire, che si gioca il futuro della nazione. Da allora, da quel maggio 2019, quando i vescovi – intervenendo sulla questione – ruppero un silenzio che era divenuto assordante, il tema è divenuto ormai quasi di moda. C’è da augurarsi che esso assuma la sua centralità anche nell’agenda del governo e la questione venga finalmente affrontata con rigore, intelligenza e, soprattutto, con una progettualità a lungo raggio.

 

+Felice Accrocca
Arcivescovo Metropolita di Benevento


APPELLO DEI VESCOVI DI BASILICATA PER RIDARE SPERANZA ALLA NOSTRA GENTE

Di fronte alla grave crisi che sta investendo diversi ambiti economici della Basilicata, tra i quali il settore automotive, con il rischio concreto di migliaia di posti di lavoro persi, noi Vescovi eleviamo ancora una volta un accorato appello a tutte le istituzioni e a tutti i cittadini.

  1. Siamo convinti che, in nome del Vangelo, occorre ridare speranza alla nostra gente. E’ urgente, infatti, una radicale presa di coscienza ed una straordinaria mobilitazione dei ‘mondi vitali’ della nostra Regione per vincere le sfide della transizione che ci attendono, riportando al centro la dimensione comunitaria della persona che vive e lavora nelle nostre fabbriche, nelle città e nelle aree interne. L’impatto socio-economico delle ultime crisi mondiali, aggravato dalla pandemia e dalle instabili condizioni geo-politiche ha provocato anche nella nostra Regione, come in altre parti del Mezzogiorno, una marginalizzazione insostenibile ed un impoverimento demografico e sociale, la riduzione della base produttiva e occupazionale, la diseguaglianza tra cittadini e territori. La grande sfida – nazionale ed europea – consiste nel proteggere i ceti sociali più fragili, il mondo del lavoro che cambia e spostare l’asse verso uno sviluppo più giusto, equo e solidale. La transizione ecologica è chiaramente necessaria ma non può avvenire a discapito della dignità delle persone in ogni dimensione del loro essere. Essa ci sfida rappresentando l’opportunità di fare nostro un nuovo modello di sviluppo che, riconoscendo la centralità del lavoro umano e della dignità della persona umana, risulti efficacemente capace di coniugare sostenibilità e giustizia economica, sociale ed ambientale.

 

  1. Il nostro territorio, pur segnato da evidenti criticità e contraddizioni, presenta notevoli potenzialità, purtroppo ancora inespresse e divise. Pensiamo ad esempio ai numerosi “beni comuni” che lo caratterizzano: ambiente, acqua, riserve delle aree forestali, ecc…. Tali risorse naturali, se adeguatamente valorizzate, possono senza alcun dubbio contribuire a rafforzare l’ossatura della nostra economia. La sfida che ci sta davanti è di sconfiggere un pessimismo latente ed una incapacità di una visione comune di rinascita socio-economica, avviando una ripresa oggettiva che non può prescindere dal porre la nostra Basilicata in rete con il resto del Mezzogiorno. È necessario anche favorire un protagonismo sinergico delle diverse aree del territorio, che superi squilibri e contrapposizioni. Noi Vescovi, con le nostre comunità ecclesiali, ancora una volta, auspichiamo un cambio di paradigma, capace di generare scelte nuove e coraggiose.

 

  1. Con la forza del Vangelo e con le ragioni delle donne e degli uomini di buona volontà che vogliono operare per il bene comune chiediamo:

 

  1. Significativi investimenti infrastrutturali: anche alla luce della possibilità di autonomie differenziate, risulta non più derogabile fornire la nostra Regione di adeguate dotazioni infrastrutturali per superare l’isolamento e portare i nostri cittadini alla contemporaneità.

 

  1. Nuove politiche industriali: occorre, infatti, un piano nazionale e regionale che sostenga la riconversione industriale, promuovendo investimenti in settori innovativi e a basso impatto ambientale, creando nuove opportunità occupazionali.

 

  1. Investimenti nella formazione: è fondamentale garantire percorsi di formazione continua e di riqualificazione professionale, che superando l’atavico disallineamento tra domanda ed offerta, riescano finalmente a garantire ai lavoratori le competenze necessarie per affrontare le nuove sfide del mercato del lavoro. E’ prioritario garantire ai giovani la continuità dei percorsi formativi e lavorativi ed assicurare al territorio quelle professionalità tecniche, scientifiche ed umanistiche indispensabili per la ripresa e l’innovazione, concorrendo ad aumentare il numero dei giovani in possesso di una qualifica o di un diploma professionale, di un titolo di formazione terziaria e di laureati.

 

  1. Politiche attive del lavoro: servono misure concrete per favorire il reinserimento lavorativo delle persone che perderanno il posto di lavoro, come incentivi all’autoimprenditorialità, tirocini e borse di studio. Non possiamo dimenticare, inoltre, le gravi ripercussioni che questa crisi sta avendo sui nostri giovani, già duramente provati dalla difficoltà di trovare un primo impiego stabile, e sulle donne, spesso costrette a conciliare lavoro e famiglia. È necessario introdurre azioni mirate per sostenere l’inserimento lavorativo dei giovani, attraverso Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento (PCTO) e tirocini professionalizzanti e, nel contempo, promuovere più efficacemente politiche di armonizzazione dei tempi di vita e di lavoro per consentire alle donne di partecipare pienamente al mercato del lavoro e alla vita sociale del Paese. Essenziale è anche la creazione di contesti che favoriscano una più marcata radicazione sul territorio delle Università e dei Centri di Ricerca per implementare e sostenere le attività di formazione di uomini liberi, capaci di pensiero critico divergente, e la produzione di conoscenza e le attività di ricerca per il progresso della società. A tal fine, fondamentale è la sinergia con il sistema produttivo per il trasferimento delle conoscenze e delle migliori tecnologie disponibili.

 

Di assoluto rilievo è l’emergenza del settore auto per gli impatti indiscutibili di crisi e di tenuta del tessuto sociale ed ambientale che esso ha nella nostra Regione. Tutto ciò rappresenta indiscutibilmente il più significativo asse manifatturiero regionale: un settore che è ormai connaturato alla economia regionale, come distretto produttivo avanzato e foriero di quella cultura industriale che ha costituito la novità più rilevante della Basilicata moderna dopo gli anni ‘80. A livello internazionale, la tendenza alla decarbonizzazione ha prodotto nuovi scenari nel campo dell’automotive con effetti spesso di deindustrializzazione, con impatti socio-economici allarmanti e pericolosi per la tenuta sociale dei Paesi. I dati e le informazioni recenti non sono confortanti. Come emerge da report accreditati si registra un sostanziale arretramento sul piano occupazionale, con conseguenti preoccupazioni anche in presenza di piani di industrializzazione che prevedono la produzione di nuovi modelli, come ad esempio il caso dell’Azienda Stellantis. Occorre necessariamente ristabilire la “strategicità” dello stabilimento di Melfi. Siamo consapevoli che la crisi del settore è complessa e va approcciata in maniera sistematica. Sono necessari accordi e visioni coraggiose ed innovative a partire da alcuni temi e scelte fondamentali.

È tempo di agire in modo coordinato, coinvolgendo le parti sociali, l’Europa, il Governo nazionale e le istituzioni locali.

Insieme siamo chiamati tutti a costruire una visione di futuro per la nostra Basilicata, in cui la crescita economica vada di pari passo con la giustizia sociale e la tutela dell’ambiente.

 

Potenza, 1° dicembre 2024 – I domenica di Avvento

I Vescovi di Basilicata

 

Fonte chiesedibasilicata.it
https://www.chiesedibasilicata.it/appello-dei-vescovi-di-basilicata-per-ridare-speranza-alla-nostra-gente/

Prima Assemblea sinodale delle Chiese in Italia

Assemblea Sinodale Italiana

Prima Assemblea sinodale delle Chiese in Italia

Un’esperienza di Chiesa viva e in cammino

Dal 15 al 17 novembre 2024 una nostra delegazione diocesana ha partecipato alla Prima Assemblea sinodale delle Chiese in Italia, svoltasi a Roma all’interno della suggestiva Basilica Papale di San Paolo Fuori le Mura. Questo luogo, dal profondo valore simbolico e storico, fu sede dell’annuncio del Concilio Vaticano II da parte di papa Giovanni XXIII, avvenuto il 25 gennaio 1959, e ospiterà il Giubileo della nostra diocesi, il 17 giugno 2025. Partecipare alla Prima Assemblea sinodale ci ha consentito di immergerci in un’esperienza di Chiesa viva, accogliente e profondamente umana. Roma, cuore pulsante della cattolicità, ci ha accolto con la sua bellezza e spiritualità, mentre i volti dei partecipanti, provenienti da ogni angolo dell’Italia, riflettevano la ricchezza e la diversità della nostra comunità di fede. Fin dal primo momento, si respirava un clima di unità e partecipazione, un desiderio autentico di ascoltare e camminare insieme. Ogni intervento, ogni dialogo, ogni momento di preghiera collettiva sembrava costruire un mosaico di esperienze, speranze e sogni che trovava il suo centro nella figura di Cristo. La sinodalità, nella sua essenza, era visibile e concreta: un cammino condiviso, fatto di ascolto reciproco e discernimento comunitario. Particolarmente intensi sono stati i lavori sinodali. Le giornate si sono articolate in momenti di confronto e riflessione su temi centrali per il futuro della Chiesa: corresponsabilità, missione e la sfida di essere una Chiesa “in uscita”. Le relazioni sono state ispiranti, ricche e profonde. Si è percepito che ogni voce aveva un peso, che ogni esperienza portava una luce unica per il cammino comune. Ciò che più ha colpito è stato il profondo senso di accoglienza e di rispetto per ogni contributo, indipendentemente dalla provenienza o dal ruolo ecclesiale di ciascuno. I lavori sinodali non sono stati solo teorici, ma ricchi di esperienze concrete: le sintesi dei tavoli sinodali hanno narrato di inclusione sociale, di pastorale nelle periferie, e di nuovi modi di vivere l’annuncio del Vangelo, che faccia comprendere come la Chiesa sia davvero viva e operativa nelle situazioni più diverse. Frutto dell’Assemblea sarà l’elaborazione, da parte del Comitato Nazionale del Cammino sinodale, di uno strumento di lavoro, le cui schede verranno consegnate alle diocesi per un discernimento comunitario e i cui risultati saranno oggetto di studio in vista della prossima Assemblea sinodale, che si terrà dal 31 marzo al 4 aprile 2025. La preghiera è stata centrale in ogni fase dell’Assemblea. Non sono mancati momenti di intensa spiritualità. Le celebrazioni eucaristiche, la liturgia delle ore e le preghiere comunitarie ci hanno ricordato che tutto il nostro cammino parte da Cristo e conduce a Lui. Pregare insieme è stato un segno tangibile della cattolicità della Chiesa, un’esperienza che ha rafforzato la consapevolezza di essere parte di una comunità più grande, chiamata a camminare con fiducia verso il futuro. Partecipare all’Assemblea sinodale è stato trasformante, molto più di un evento ecclesiale: è stata una vera esperienza di comunione e trasformazione personale. Tornando a casa, il cuore è pieno di gratitudine e speranza. Gratitudine per aver visto una Chiesa che sa ascoltare, includere e camminare con tutti; speranza per un futuro in cui la sinodalità non sarà solo un tema, ma uno stile di vita per ogni comunità cristiana. Portiamo con noi volti, storie, e una domanda, che sembra risuonare come una chiamata: “Cosa può fare ciascuno di noi per rendere il Vangelo ancora più vivo nelle nostre comunità?”. Questa Assemblea non è stata solo un incontro, ma una vera tappa di crescita spirituale e comunitaria, un’esperienza che resterà nel cuore come testimonianza di una Chiesa sempre in movimento, guidata dallo Spirito e innamorata del suo Signore.

I delegati don Mauro Gallo, Donatina Allamprese e Teresa Sperduto

I delegati diocesani don Mauro Gallo, Donatina Allamprese, Teresa Sperduto

I delegati diocesani don Mauro Gallo, Donatina Allamprese, Teresa Sperduto

VIII GIORNATA MONDIALE DEI POVERI – Domenica 17 novembre 2024

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO

VIII GIORNATA MONDIALE DEI POVERI

Domenica XXXIII del Tempo Ordinario
17 novembre 2024
La preghiera del povero sale fino a Dio (cfr Siracide 21,5)

Cari fratelli e sorelle!

  1. La preghiera del povero sale fino a Dio (cfr Sir 21,5). Nell’anno dedicato alla preghiera, in vista del Giubileo Ordinario 2025, questa espressione della sapienza biblica è quanto mai appropriata per prepararci all’VIII Giornata Mondiale dei Poveri, che ricorrerà il 17 novembre prossimo. La speranza cristiana abbraccia anche la certezza che la nostra preghiera giunge fino al cospetto di Dio; ma non qualsiasi preghiera: la preghiera del povero! Riflettiamo su questa Parola e “leggiamola” sui volti e nelle storie dei poveri che incontriamo nelle nostre giornate, perché la preghiera diventi via di comunione con loro e di condivisione della loro sofferenza.
  2. Il libro del Siracide, a cui facciamo riferimento, non è molto conosciuto, e merita di essere scoperto per la ricchezza di temi che affronta soprattutto quando tocca la relazione dell’uomo con Dio e il mondo. Il suo autore, Ben Sira, è un maestro, uno scriba di Gerusalemme, che scrive probabilmente nel II secolo a.C. È un uomo saggio, radicato nella tradizione d’Israele, che insegna su vari campi della vita umana: dal lavoro alla famiglia, dalla vita in società all’educazione dei giovani; pone attenzione ai temi legati alla fede in Dio e all’osservanza della Legge. Affronta i problemi non facili della libertà, del male e della giustizia divina, che sono di grande attualità anche per noi oggi. Ben Sira, ispirato dallo Spirito Santo, intende trasmettere a tutti la via da seguire per una vita saggia e degna di essere vissuta davanti a Dio e ai fratelli.
  3. Uno dei temi a cui questo autore sacro dedica maggior spazio è la preghiera. Egli lo fa con molto ardore, perché dà voce alla propria esperienza personale. In effetti, nessuno scritto sulla preghiera potrebbe essere efficace e fecondo se non partisse da chi ogni giorno sta alla presenza di Dio e ascolta la sua Parola. Ben Sira dichiara di aver ricercato la sapienza fin dalla giovinezza: «Quando ero ancora giovane, prima di andare errando, ricercai assiduamente la sapienza nella mia preghiera» (Sir 51,13).
  4. In questo suo percorso, egli scopre una delle realtà fondamentali della rivelazione, cioè il fatto che i poveri hanno un posto privilegiato nel cuore di Dio, a tal punto che, davanti alla loro sofferenza, Dio è “impaziente” fino a quando non ha reso loro giustizia: «La preghiera del povero attraversa le nubi né si quieta finché non sia arrivata; non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto e abbia reso soddisfazione ai giusti e ristabilito l’equità. Il Signore certo non tarderà né si mostrerà paziente verso di loro” (Sir 35,21-22). Dio conosce le sofferenze dei suoi figli, perché è un Padre attento e premuroso verso tutti. Come Padre, si prende cura di quelli che ne hanno più bisogno: i poveri, gli emarginati, i sofferenti, i dimenticati… Ma nessuno è escluso dal suo cuore, dal momento

che, davanti a Lui, tutti siamo poveri e bisognosi. Tutti siamo mendicanti, perché senza Dio saremmo nulla. Non avremmo neppure la vita se Dio non ce l’avesse donata. E, tuttavia, quante volte viviamo come se fossimo noi i padroni della vita o come se dovessimo conquistarla! La mentalità mondana chiede di diventare qualcuno, di farsi un nome a dispetto di tutto e di tutti, infrangendo regole sociali pur di giungere a conquistare ricchezza. Che triste illusione! La felicità non si acquista calpestando il diritto e la dignità degli altri.

La violenza provocata dalle guerre mostra con evidenza quanta arroganza muove chi si ritiene potente davanti agli uomini, mentre è miserabile agli occhi di Dio. Quanti nuovi poveri produce questa cattiva politica fatta con le armi, quante vittime innocenti! Eppure, non possiamo indietreggiare. I discepoli del Signore sanno che ognuno di questi “piccoli” porta impresso il volto del Figlio di Dio, e ad ognuno deve giungere la nostra solidarietà e il segno della carità cristiana. «Ogni cristiano e ogni comunità sono chiamati ad essere strumenti di Dio per la liberazione e la promozione dei poveri, in modo che essi possano integrarsi pienamente nella società; questo suppone che siamo docili e attenti ad ascoltare il grido del povero e soccorrerlo» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 187).

  1. In questo anno dedicato alla preghiera, abbiamo bisogno di fare nostra la preghiera dei poveri e pregare insieme a loro. È una sfida che dobbiamo accogliere e un’azione pastorale che ha bisogno di essere alimentata. In effetti, «la peggior discriminazione di cui soffrono i poveri è la mancanza di attenzione spirituale. L’immensa maggioranza dei poveri possiede una speciale apertura alla fede; hanno bisogno di Dio e non possiamo tralasciare di offrire loro la sua amicizia, la sua benedizione, la sua Parola, la celebrazione dei Sacramenti e la proposta di un cammino di crescita e di maturazione nella fede. L’opzione preferenziale per i poveri deve tradursi principalmente in un’attenzione religiosa privilegiata e prioritaria» (ivi, 200).

Tutto questo richiede un cuore umile, che abbia il coraggio di diventare mendicante. Un cuore pronto a riconoscersi povero e bisognoso. Esiste, infatti, una corrispondenza tra povertà, umiltà e fiducia. Il vero povero è l’umile, come affermava il santo vescovo Agostino: «Il povero non ha di che inorgoglirsi, il ricco ha l’orgoglio da combattere. Ascoltami perciò: sii un vero povero, sii virtuoso, sii umile» (Discorsi, 14, 4). L’umile non ha nulla da vantare e nulla pretende, sa di non poter contare su sé stesso, ma crede fermamente di potersi appellare all’amore misericordioso di Dio, davanti al quale sta come il figlio prodigo che torna a casa pentito per ricevere l’abbraccio del padre (cfr Lc 15,11-24). Il povero, non avendo nulla a cui appoggiarsi, riceve forza da Dio e in Lui pone tutta la sua fiducia. Infatti, l’umiltà genera la fiducia che Dio non ci abbandonerà mai e non ci lascerà senza risposta.

  1. Ai poveri che abitano le nostre città e fanno parte delle nostre comunità dico: non perdete questa certezza! Dio è attento a ognuno di voi e vi è vicino. Non vi dimentica né potrebbe mai farlo. Tutti facciamo esperienza di una preghiera che sembra rimanere senza risposta. A volte chiediamo di essere liberati da una miseria che ci fa soffrire e ci umilia e Dio sembra non ascoltare la nostra

invocazione. Ma il silenzio di Dio non è distrazione dalle nostre sofferenze; piuttosto, custodisce una parola che chiede di essere accolta con fiducia, abbandonandoci in Lui e alla sua volontà. È ancora il Siracide che lo attesta: “Il giudizio di Dio sarà a favore del povero” (cfr 21,5). Dalla povertà, dunque, può sgorgare il canto della più genuina speranza. Ricordiamoci che «quando la vita interiore si chiude nei propri interessi non vi è più spazio per gli altri, non entrano più i poveri, non si ascolta più la voce di Dio, non si gode più della dolce gioia del suo amore, non palpita l’entusiasmo di fare il bene. […] Questa non è la vita nello Spirito che sgorga dal cuore di Cristo risorto» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 2).

  1. La Giornata Mondiale dei Poveri è diventata ormai un appuntamento per ogni comunità ecclesiale. È un’opportunità pastorale da non sottovalutare, perché provoca ogni credente ad ascoltare la preghiera dei poveri, prendendo coscienza della loro presenza e necessità. È un’occasione propizia per realizzare iniziative che aiutano concretamente i poveri, e anche per riconoscere e dare sostegno ai tanti volontari che si dedicano con passione ai più bisognosi. Dobbiamo ringraziare il Signore per le persone che si mettono a disposizione per ascoltare e sostenere i più poveri. Sono sacerdoti, persone consacrate, laici e laiche che, con la loro testimonianza, danno voce alla risposta di Dio alla preghiera di quanti si rivolgono a Lui. Il silenzio, dunque, si spezza ogni volta che un fratello nel bisogno viene accolto e abbracciato. I poveri hanno ancora molto da insegnare, perché in una cultura che ha messo al primo posto la ricchezza e spesso sacrifica la dignità delle persone sull’altare dei beni materiali, loro remano contro corrente evidenziando che l’essenziale per la vita è ben altro.

La preghiera, quindi, trova nella carità che si fa incontro e vicinanza la verifica della propria autenticità. Se la preghiera non si traduce in agire concreto è vana; infatti «la fede senza le opere è morta» (Gc 2,26). Tuttavia, la carità senza preghiera rischia di diventare filantropia che presto si esaurisce. «Senza la preghiera quotidiana vissuta con fedeltà, il nostro fare si svuota, perde l’anima profonda, si riduce ad un semplice attivismo» (BENEDETTO XVI, Catechesi, 25 aprile 2012). Dobbiamo evitare questa tentazione ed essere sempre vigili con la forza e la perseveranza che proviene dallo Spirito Santo che è datore di vita.

  1. In questo contesto è bello ricordare la testimonianza che ci ha lasciato Madre Teresa di Calcutta, una donna che ha dato la vita per i poveri. La Santa ripeteva continuamente che era la preghiera il luogo da cui attingeva forza e fede per la sua missione di servizio agli ultimi. Quando, il 26 ottobre 1985, parlò nell’Assemblea Generale dell’ONU, mostrando a tutti la corona del Rosario che teneva sempre in mano disse: «Io sono soltanto una povera suora che prega. Pregando, Gesù mi mette nel cuore il suo amore e io vado a donarlo a tutti i poveri che incontro sul mio cammino. Pregate anche voi! Pregate, e vi accorgerete dei poveri che avete accanto. Forse nello stesso pianerottolo della vostra abitazione. Forse anche nelle vostre case c’è chi aspetta il vostro amore. Pregate, e gli occhi si apriranno e il cuore si riempirà di amore».

E come non ricordare qui, nella città di Roma, San Benedetto Giuseppe Labre (1748-1783), il cui corpo riposa ed è venerato nella chiesa parrocchiale di Santa Maria ai Monti. Pellegrino dalla

Francia a Roma, rifiutato da tanti monasteri, egli trascorse gli ultimi anni della sua vita povero tra i poveri, sostando ore e ore in preghiera davanti al Santissimo Sacramento, con la corona del rosario, recitando il breviario, leggendo il Nuovo Testamento e l’Imitazione di Cristo. Non avendo nemmeno una piccola stanza dove alloggiare, dormiva abitualmente in un angolo delle rovine del Colosseo, come “vagabondo di Dio”, facendo della sua esistenza una preghiera incessante che saliva fino a Lui.

  1. In cammino verso l’Anno Santo, esorto ognuno a farsi pellegrino di speranza, ponendo segni tangibili per un futuro migliore. Non dimentichiamo di custodire «i piccoli particolari dell’amore» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 145): fermarsi, avvicinarsi, dare un po’ di attenzione, un sorriso, una carezza, una parola di conforto… Questi gesti non si improvvisano; richiedono, piuttosto, una fedeltà quotidiana, spesso nascosta e silenziosa, ma resa forte dalla preghiera. In questo tempo, in cui il canto di speranza sembra cedere il posto al frastuono delle armi, al grido di tanti innocenti feriti e al silenzio delle innumerevoli vittime delle guerre, rivolgiamo a Dio la nostra invocazione di pace. Siamo poveri di pace e tendiamo le mani per accoglierla come dono prezioso e nello stesso tempo ci impegniamo a ricucirla nel quotidiano.
  2. Siamo chiamati in ogni circostanza ad essere amici dei poveri, seguendo le orme di Gesù che per primo si è fatto solidale con gli ultimi. Ci sostenga in questo cammino la Santa Madre di Dio Maria Santissima, che apparendo a Banneux ci ha lasciato il messaggio da non dimenticare: «Sono la Vergine dei poveri». A lei, che Dio ha guardato per la sua umile povertà, compiendo cose grandi con la sua obbedienza, affidiamo la nostra preghiera, convinti che salirà fino al cielo e sarà ascoltata.

Roma, San Giovanni in Laterano, 13 giugno 2024, memoria di Sant’Antonio da Padova, Patrono dei poveri.

V SETTIMANA BIBLICA DIOCESANA – Il Vangelo di Giovanni. Il libro dei segni

CIRO FANELLI

VESCOVO DI MELFI – RAPOLLA – VENOSA

 

V SETTIMANA BIBLICA DIOCESANA

Il Vangelo di Giovanni. Il libro dei segni.

Comunicato 1° dicembre 2023

 

La Settimana Biblica per la diocesi di Melfi-Rapolla-Venosa ha raggiunto la sua V edizione. Essa è stata curata dal Prof. D. Pasquale Basta, docente di Sacra Scrittura presso la Pontificia Università Urbaniana in Roma. L’attuale Settimana Biblica si inserisce nel cammino ecclesiale diocesano che, a partire da questo anno, per un triennio, sarà centrato sull’Eucaristia e sarà scandito dalla Visita Pastorale del Vescovo Ciro Fanelli, che è iniziata lo scorso 7 ottobre.

Il tema dell’attuale Settimana Biblica è “Il Vangelo di Giovanni. Il libro dei segni”.  Essa intende accompagnare la comunità ecclesiale e, in particolare, gli operatori pastorali a ri-partire dalla Parola di Dio per strutturare gli itinerari formativi e per dare senso e significato cristologico ai percorsi spirituali e pastorali, personali e comunitari. La Settimana, che è iniziata lunedì scorso, 27 novembre, con un’ampia e profonda introduzione del Prof. Basta, si conclude oggi venerdì 1° dicembre con una relazione del Prof. padre Tony Leva su “Il cieco nato: Gesù luce del mondo”. Nei giorni precedenti, invece, sono intervenuti i docenti di Sacra Scrittura P. Alberto Casalegno SJ (Napoli) e don Gerardo Cerbasi (Potenza).

Quest’anno la Settimana Biblica, che si svolge a Rionero in Vulture, presso la Chiesa Madre, si prefigge particolarmente di entrare nel Vangelo di Giovanni per favorire un’esperienza personale di Gesù: sposo, acqua viva,  pane vivo, luce del mondo.

Il percorso offerto, oltre ad arricchire il cammino ecclesiale diocesano, è stato anche un aiuto concreto alle parrocchie e alle aggregazioni laicali in vista dell’estrinsecazione della tappa sapienziale del cammino sinodale. “Il tempo della Settimana Biblica – ha detto il Vescovo Fanelli – è sempre un fecondo esercizio ecclesiale di ascolto, approfondimento e condivisione dell’esperienza di fede per rinnovare l’azione pastorale: la Chiesa nasce e rinasce dall’ascolto della Parola”. La Parola di Dio, come insegna Papa Francesco, aiuta a leggere meglio la nostra esperienza ecclesiale e i segni dei tempi per sostenerci nella testimonianza dei valori del Regno nella città terrena.

La Settimana, che si è aperta con la celebrazione dell’intronizzazione della Parola di Dio, presieduta dal Vescovo Fanelli, lunedì 27 novembre, si conclude questa sera, venerdì 1° dicembre, con l’esortazione da parte del Vescovo a comunicare con gioia e convinzione il Vangelo in ogni ambito della vita.